Simbiosi nel bosco – Dialoghi interspecie
A cura di Marika Mazzeo e Giuseppe Antonio Bagnato
In collaborazione con Sistema Hava

Nel bosco di “Gennandria”, area verde tra le frazioni di Serrastretta, Viterale e Forestella, si è svolto un evento che ha trasformato il paesaggio in un palcoscenico di dialogo tra ambiente e creatività.
Un’occasione per tessere un ponte tra l’energia ancestrale del territorio e le forme visive dell’arte, stimolando una riflessione profonda sul rapporto tra uomo e natura.

Nove artisti hanno realizzato installazioni site-specific nel bosco, che saranno esposte ad agosto. Queste opere hanno dato vita a un percorso immersivo > Micaela Arcuri, Pina Cerchiaro, Domenico Caracciolo, Antonino Denami, Nicola Di Domenico, Gennaro Lanzo, Caterina Muraca, Enrico Sirianni e Giuseppe Samuele Vasile.
Testi di Giuseppe Antonio Bagnato
Su un cappotto di pelle, l’artista tatua una ruota simbolica, archetipo del ciclo naturale. Ai suoi lati, due serpenti si rincorrono in un perpetuo ricambio organico, mentre ai poli opposti si collocano le allegorie della natura e dell’uomo. Il corpo diventa superficie narrativa, in cui la materia si fa pelle del mondo e ogni incisione riflette l’eterna reciprocità tra ciò che cresce e ciò che si consuma.
Gli Appunti si compongono come frammenti dissonanti, eppure coerenti, ispirati all’universo inquieto di Petrolio di Pasolini. L’artista raccoglie suggestioni fugaci e immagini del quotidiano per costruire un mosaico visivo che intreccia consumo, identità e percezione. Ne scaturisce una narrazione irregolare e frammentaria, dove l’inconscio individuale si fonde con le derive della collettività contemporanea.
Un canto sottile attraversa l’opera: inno all’incontro, all’amore platonico e alla sacralità del ricordo. I fili si intrecciano come legami invisibili, riconnettendosi alla memoria del bosco e ai suoi “13 fratelli”. La pietra, come archivio silente del passato, diventa punto d’origine e di ritorno, luogo di contatto spirituale in cui il tempo si piega per riaccogliere ciò che sembrava perduto.
L’artista interroga la terra nella sua dimensione primordiale, restituendole la dignità di materia generativa. Attraverso gesti misurati e organici, la ciclicità della natura si rivela come un tempo profondo e condiviso. Il suolo non è sfondo, ma testimone attivo di un passato ancestrale che ancora pulsa, indicandoci l’urgenza di un ritorno all’origine, alla presenza, alla verità del nostro essere-terra.
Fragilità e rigenerazione si rincorrono tra i fogli di carta riciclata, tenuti insieme da un filo sottile di cotone bianco. L’opera si dispiega come un gesto corale, in cui ogni frammento si unisce a un disegno più vasto, suggerendo l’idea di un’unità universale. La natura non viene imitata, ma abitata: fragile, pulsante, in perenne mutamento. È una poesia tattile sul senso di appartenenza.
Una struttura totemica, ibrida tra terracotta e legno, si erge nel vuoto con un moto incerto, oscillando tra l’ascesa e la caduta. Evocando la torre di Babele, l’opera riflette il desiderio utopico dell’uomo di trascendere i propri limiti, restando però radicata nella terra, come monito e necessità. Il totem diventa simbolo di tensione irrisolta tra verticalità spirituale e gravità terrena.
Come un rifugio segreto e silenzioso destinato ad accogliere creature invisibili, l’opera si trasforma in un custode discreto e complice della natura. All’interno di una teca lignea, puppet colorati tentano invano una fuga, mosse da un impulso distruttivo che si rivolge a ciò che le protegge e le rinchiude. Questo gesto contraddittorio mette in luce la fragile tensione che esiste tra l’uomo e l’ambiente, un rapporto fatto di conflitti, fragilità e un’ambigua volontà di dominio.
Il legno, materia viva e pulsante, viene lavorato dall’artista fino a perdere la propria consistenza solida, dissolvendosi in forme liquide e leggere che fluttuano nello spazio. Con un linguaggio sospeso tra il sogno e il pensiero metafisico, l’opera si fa testimone di un momento sospeso, un istante fugace che sfugge alla percezione. L’opera si fa riflessione profonda sulla memoria e sull’inafferrabilità del tempo, che scorre e si consuma senza volto né misura, lasciando tracce sfuggenti e impalpabili.
Una sfera di acciaio levigato, sospesa in un delicato equilibrio tra il marmo e il legno, trattiene per un attimo l’armonia precaria del mondo. Sebbene destinata inevitabilmente a cadere, questa sfera diventa simbolo di un ciclo eterno e incessante. La natura, con il suo respiro profondo e inarrestabile, dà vita a un processo continuo fatto di attese, crolli e rinascite. L’opera riflette questo movimento perpetuo: la caducità e la rinascita che si intrecciano indissolubilmente nella danza della vita.











