L’epochè è la devianza.
Partendo dai lughi “marginalizzati” è possibile raccontare una “rimozione”: un luogo marginalizzato, ovunque esso si trovi proprio in quanto “omesso”, è in grado di narrare il trauma contemporaneo della “rimozione”, che non è solo relativa ai luoghi, ma anche ad un certo modo di intendere il mondo. Ad esempio, un’importante omissione del presente è la pratica dell’ascolto che può essere recuperata, nella proposta culturale del Festival, attraverso la poesia, intesa soprattutto come attenzione all’altro.
Abitare un luogo marginalizzato, sempre più svuotato e deprivato del suo genius loci, comporta inoltre l’assenza di quelle azioni ripetute e rituali che, in qualche misura, danno senso all’abitare. Finalità del progetto è perciò la “riaddomesticazione” di Ferentino e della Valle del Sacco: vivere localmente significa pensare globalmente, con l’obbiettivo di raggiungere un “affratellamento” tra spazi marginalizzati. Il marginale sia un oggetto che in qualche modo si autodefinisce e che solo dopo questa autodefinizione è possibile individuarne l’esclusione da un campo di definizione che opera per differenza. Il marginale è la parte costitutiva di un sistema culturale, che produce latenza e opera differenziamento legislativo, così che il marginalizzato ha delle caratteristiche riconoscibili. Il marginale diventa un margine della coscienza e quello che è espulso diviene estraneo e linguisticamente difficile.
‹‹Una scelta si definisce sempre in funzione di ciò che esclude, un progetto storico è una sostituzione logica».
- Gilles Deleuze, Empirisme et subjectivité Essai sur la nature humaine selon Hum(1973), trad.it.Empirismo e soggettività, Saggio sulla natura umana secondo Hume, Napoli, Edizioni Cronopio – II, 2012, p. 11.
È a questo punto che il margine diventa così potenza dell’altro e rappresentando qualcosa come l’escluso, si presenta come una specie di ritorno del rimosso, qualcosa di familiare che ritorna o si ripete in modo sinistro.
“E’ solo radicandosi nel posto in cui si vive che diventa possibile operare un racconto sensato dello spazio” (v. fenomenologia di Merleau-Ponty).
E questo processo di riappropriazione di sé e di risignificazione dello spazio avviene, nella dimensione del Festival, mediante l’attraversamento ripetuto dei luoghi. Come gli zampognari che, in certi momenti dell’anno, con la loro musica riedificano simbolicamente gli spazi, così gli attori “nomadi”, durante il festival, con la loro voce e i loro corpi, ristrutturano un territorio disgregato con azioni rituali di “domesticazione”. Si tratta della ripetizione simbolica di qualcosa che forse non c’è mai stato o che è stato cancellato, ma la festa, come ricerca della “riproduzione indicibile del ricordo”, diventa rappresentazione ed emersione del possibile nonché riconciliazione con il presente. Da questo punto di vista ciò che accade durante il Festival può essere considerato, con un richiamo a Giordano Bruno, un “teatro della memoria”, una memoria pensata spazialmente, dispiegata, come una planimetria, come una città. Il pubblico si muove con gli attori attraverso le strade che diventano “stanze mnestiche” create “endosimbioticamente”, in una geografia immaginaria, in cui gli spazi “traumatizzati” dell’abbandono vengono infine riparati dalla desertificazione e rigenerati.
Il Covid, in particolare, privandoci della possibilità di incontrare le cose e gli oggetti del quotidiano, ha provocato un “trauma della memoria”, nonché una difficoltà di identificazione con conseguente processo di smaterializzazione della realtà e di indifferenza verso gli altri e il mondo. Rimappare il territorio, ri-simbolizzarlo, creando nuove mitopoiesi, è più che mai necessario per generare luoghi di condivisione in cui diversi immaginari possano incontrarsi.
Il Festival è dunque il tentativo di elaborare un trauma collettivo e le mappe sono metafora dello sforzo di tracciare vie di riconoscibilità all’interno di uno spazio di smarrimento. Uno sforzo di memoria, perché spazializzare vuol dire ricordare, fissare i punti dei nostri incontri che, più che nel tempo, avvengono nei luoghi. Un pensiero che è stato elaborato anche attraverso i lunghi dialoghi con il filosofo Giuseppe Cellitti.
Il Festival dell’arte nomadica, giunto alla sua quinta edizione, si articola nelle seguenti componenti: Trance(h)umanse, Arche, La sabbia delle urne, Radici Sonore e Homo Ludens, tutti momenti ideati al fine di “risignificare” lo spazio attraverso le pratiche che vi accadono.
Le Trance(h)umanse sono definite come una sorta di pellegrinaggi teatrali, “un’epopea teatrale in cammino” scritta insieme da poeti e artisti, pensata in maniera complessa ed “endosimbiotica” secondo i principi della fisica della complessità per cui ogni partecipante è una variabile che imprime una direzione differente e imprevedibile all’esito della scrittura.
Partendo dai “fantasmi site-specific”, installazioni trasformative dello spazio proposte dagli artisti coinvolti, viene “creato” il luogo da cui derivano i relativi “abitanti”, ossia gli attori e gli spettatori che, in una dimensione di dialogo anziché di divisione, si ritrovano in cammino come un popolo. Inoltre, essendo il testo scritto da vari autori, si crea una mappa polifonica che incentiva l’incontro con la differenza molto più di quanto possa fare una scrittura monolitica. Il “phylum” delle diverse scritture-radici, per ciascuna edizione della Trance(h)mansa, è dato dall’ Esalogia dell’eco, opera aperta di Danilo Paris con i suoi personaggi pellegrini: i Mihr, i Nascituri e i Carovanieri. La scrittura di quest’opera è dal primo momento compromessa: la messa in scena nasce già nel 2021 contaminata e dis-integrata dall’intromissione di scritture Altre, che decostruiscono l’integrità autoriale dell’opera.
Storia della sua epoca, trance(h)umansa del 2025, V capitolo dell’esalogia di Danilo, è opera aperta da un’altra sceneggiatura, scritta da Giammarco Pizzutelli, e ancora attraversata dal passaggio de Lo Splendore, opera-mondo di Pier Paolo Di Mino, che, allo stesso modo, diviene altro da sé: i suoi personaggi, Hans e il Libraio, diventano figure archetipiche del pellegrinaggio teatrale.
Tema della quinta edizione è stato l’epoché: sospensione e devianza. Scrive in Moleculocracy Emanuele Braga che l’epoché è l’atto generativo di resistenza all’automazione. Epoché è sospendere lo stato abituale delle cose e rimetterlo in moto secondo un ordine di non prevedibilità. I nomi tutelari di quest’edizione sono infatti Jean Luc Marion e Edmond Jabès.
In questo senso, la struttura della rivelazione, che in Marion è epoché, cioè eccedenza del fenomeno prevedibile, rottura statistica e insorgenza dell’Evento, corrisponde alla diade Hans-Libraio. La messa in scena sviluppa Hans come attenzione fenomenologica alla prassi della salvezza: quali sono i modi per instradarsi sulla via di Hans, o come viene chiamato nella transumanza, il Jadhir? Bisogna stare in silenzio, bisogna mettersi in ascolto, cantare, leggere, camminare, danzare? Sembra che ognuno dei diversi gruppi corali- i Mhyr, le Phearae di Freu du Cantu, le Ancelle, il Coro degli Insabbiati, con Sol e Il Padre dei Secoli- presuma di sapere quali siano le pratiche e i gesti rituali per ottenere l’attenzione del Jadhir. In realtà, quello che il Jadhir fa, ed è il motivo per cui si camminava, pubblico e attori, è andare con tutti. Il jadhir arriva con il Libraio, prima sembra giocare con i cori cantanti che gli fanno festa, poi viene rapito/a da Sol, lo schiavo del Padre dei Secoli, poi sembra essere lui a tenere Sol sotto la sua aura di splendore, dopo va con le Ancelle cantanti; quando lo rivede, sembra rifiutare il Libraio e prende il suo Libro, più per togliergli qualcosa di vitale, lasciandogli in mano un cero per commemorare la cenere, che per volerlo per sé; infine, accompagnato da Purezza, il camminatore dei candelabri, sembra riconoscere tutti, soltanto perché loro stessi, camminando insieme, hanno dimenticato i modi che pensavano di conoscere per ingraziarselo e si sono aperti alla rivelazione come spazio dell’imprevedibilità, luogo in cui le differenze proliferano come saperi. E anche in ciò, infine, il Jadhir/Hans si lascia portare via dal Padre dei Secoli, prende il posto dei sacrifici che voleva pretendere. “Ce la passiamo tutti tra le mani, come fosse il pane, e dentro il pane è dio, a legge e carestia”. Il jadhir era già sacrificio, quando ognuno se lo voleva accaparrare, come se la salvezza fosse qualcosa da reclamare a discapito dell’Altro.
Se lo splendore abita la transumanza, l’epochè prolifera aldilà del cammino stesso: diventa dimensione del domandare nel Libro delle Interrogazioni di Edmond Jabès, messo in voce in Sulla soglia del libro, curato dai gruppi di Inverso Poesia e Vallecchi poesia, che hanno inaugurato e chiuso la Sabbia delle Urne, la sezione di poesia.
“Sulla soglia del libro”, la presa di coscienza di un grido attraverso l’ascolto, la prima parte de Il libro delle interrogazioni di Edmond Jabés.
Un recital a cinque voci curato da Mattia Tarantino, Nicola Barbato, Rebecca Garbin, Mikel Marin e Davide Gallo , con l’installazione performativa “orti erranti” a cura di Noemi Saltalamacchia e gli ambienti sonori di Gabriele D’elia.
“Il lettore è forse chiamato, più che al giudizio, ad una prossimità con l’autore, più che a un commento, a quella prima essenziale forma di ermeneutica che è l’ascolto. Ascolto delle voci – di rabbini e di discepoli, di amanti e di perseguitati – e ascolto delle innumerevoli variazioni che muovono dall’enigma di un volto assente verso una ricognizione – una cognizione – del dolore che è nel mondo.”
Se il I movimento coincide con la riapertura e l’indecibilità del contenuto delle urne, il II movimento, “Tu riempi qui le urne e nutri il mio cuore” è la nominazione che infine ricevono le sabbie, dopo aver lasciato aperta la possibilità di dar loro ascolto. Questi nomi sono quelli che vi significano i poemi letti da Ghayath Almadhoun, i nomi e i luoghi della Palestina e della Siria, i nomi dei carnefici e delle vittime, i nomi delle coscienze da indicare con precisione e mettere sotto giudizio.
Nel tradurre riconosciamo l’epochè fondamentale: la sospensione di lingua e territorio, il debito che abita la lingua e l’abitare, verso un altrove che delegittima ogni posizione acquisita.
Epochè è Chrysalis Os, di Francesca Giansanti e Matteo Gobbo, video-proiezione nel muro sopra l’abside della Chiesa di Santa Lucia: opera una “sospensione del mondo” per l’ingresso ad un altro ancora da farsi e da pensarsi, un sistema operativo in crisalide, quindi un pensiero che non è ancora il pensiero, ma tutto un mondo ancora pensare. Una sospensione di mondo che offre al pensiero il visibile, non come oggetto, ma come un atto che continuamente nasce e si sottrae a pensiero.
Una macchina del pensiero, che cristallizza i suoi personaggi in un gestus a-temporale che precede la leggenda che ospiterebbe le loro storie. Una cerimonia segreta in cui i personaggi sono presi nel momento prima della leggenda, nel punto di domanda, nello sconcatenamento tra gesti rituali-segnici che riproducono la vita senza nessi senso-motori del sogno di un automa spirituale che è diventato Mummia, istanza smontata, testimonianza dell’impossibilità del pensare che è il pensiero”. Alio Die, nella Chiesa di S.Lucia è
sospensione sonora del mondo e rinfrescamento percettivo, sospensione temporanea dell’orecchio viziato agli automatismi sonori della quotidianità e riapertura a echi, ciottolii, bisbigli, stropicciamenti e gorgoglii dell’essere. Qualcosa suona dentro le cose e non è il modo diretto in cui il mondo ascolta sè stesso: è necessaria un’iniziazione a questo tipo di ascolto, un sonno che prepari al risveglio esperienziale, per accedere agli scricchiolii inudibili delle cose.
Dalla fine degli anni ’80 ha costruito un percorso di instancabile ricerca geo-percettiva, dai primordi subito prodotti dalla Projekt Records( Under Holy Ritual, 1992), passando per prolifiche collaborazioni ( Mathias Grassow, Mariolina Zitta, Roberto Rich, Lingua Fungi), fino alle recentissime Primordial Passport e Between the end and the beginning.
Così è anche la coreografia geroglifica delle icone oracolari dipinte e dirette da Giampaolo Parrilla e la scuola di danza Tersicore Piacenza: sfingi che dalle segrete consultazioni, dalle grotte di Cuma e di Trofonio, portano in superfici significati introducibili, ricongiungono le previsioni geopolitiche alle forze impredicibili degli oracoli sibillini.
Epochè è Sul mutismo dei germogli, un cammino espositivo che connette le cinque “arche”, spazi di curatela per immaginari in esilio. I fenomeni rivelati ci coinvolgono pienamente. Davanti ad essi cade ogni pretesa di rimanere semplici spettatori: osservatori tanto imparziali quanto distaccati. Essi si manifestano eleggendo chi li riceve come il loro testimone: colui che non solo ha ricevuto la rivelazione, ma anche la rende accessibile agli altri. La testimonianza ha però un tratto paradossale. Il testimone, per essere tale, deve testimoniare anche il carattere “d’altrove/d’altronde” della rivelazione. Deve cioè testimoniare non solo ciò che (solo) lui ha sperimentato, ma anche che lui – in ciò che ha sperimentato – non è riuscito a capire e a comprendere tutto ciò che si è dato, perché è stato proprio una rivelazione: qualcosa che viene d’ailleurs. Il testimone testimonia così non solo il suo sapere – il fenomeno che egli racconta – ma anche il suo irriducibile non sapere– il suo testimoniare che tale fenomeno rimane sempre proveniente “d’altrove” anche per lui che ne è tuttavia (e proprio in ragione di questo) il suo testimone.
Far silenzio, affinché nascano, non condizionati, i germogli, parafrasando il titolo pensato a partire dai versi di Nanni Cagnone in Index Vacuum.
La mostra Abitare L’orizzonte, del Rione Placido nella casa della pace, il complesso archeologico restaurato nello spazio dell’attuale Palazzo Consolare, sviluppatosi su più piani stratigrafico/architettonici al di sopra di una Domus romana, rinvenuta già negli studi dell’architetto Morosini.
“Pavimenti musivi bianco-neri, resti di muri divisori degli ambienti domestici, l’impluvium di un atrio, lacerti di intonaci affrescati, documentando la presenza di una domus di epoca repubblicana, abbattuta e ricoperta dalle successive costruzioni. Resti di pavimento in mosaico bianco con tessere minute sono visibili a circa un metro di profondità rispetto al livello del pavimento attuale.”
Tracce e frammenti che decostruiscono la vitruviana unità architettonica in una pluralità di tempi e soglie, che sotto e sopra le tessere di una casa, si aprono agli attraversamenti di molteplicità di visitatori, spazio fungino,
Physarum polycephalum, rete di mobilità incarnata nelle possibilità sistemiche dell’abitazione.
Abitare dissolto dalle sue “infiltrazioni” marine( Colacione), letteratura minore del divenire-animale, divenire-cervante che inventa comunità possibili, popoli rimasti latenti, sfuggiti al reale coloniale “leggendando”(Paolo Vitale).
Abitare che nell’operazione schizo/geologica, trattiene i suoi resti anatomici in crisalide, i suoi quasi-utensili, rovine aperte allo spazio del pensiero, che ne ritrova le irrisolte nuove funzioni, non prescritte più dall’utilizzo mondano, ma riconsegnati all’anarchia formale della terra esumante( Tiziano Conte).
Tempi dell’abitare come luogo attraversato dall’osservazione delle tracce, cioè dalla luce come spazio ospitante, sindone umana come traccia olobionte impressa come estraneità nella luce( D.Montresor).”
Come chi si abitua alla notte, a cura di Enrico Scapinelli, con le opere di Michele Cotelli, Michela Carrano e Jonathan Soliman, una catabasi tra criptoportico e cripta di Santa Lucia. Riconosciamo il luogo e il luogo riconosce noi, diventiamo “ambiente”: un tutt’uno in cui percezione, sensazione e immaginazione si compenetrano.
Un’esperienza possibile se vi è una disposizione all’ascolto di ciò che si trova all’esterno e un silenziamento di parte della nostra attività interiore. Sacrifichiamo per accogliere, ci facciamo vuoto da riempire con l’altro, l’evento, l’incontro.
Come un testimone cieco, s’avvia nella catabasi che collega i due spazi criptici del paese: Criptoportico e Cripta di Santa Lucia.
Prima che il dubbio diventi sistema, la skepsis è cosa degli occhi, la parola designa una percezione visiva, l’osservazione, la vigilanza, l’attenzione dello sguardo nell’esaminare. Si spia, si riflette su ciò che si vede, si riflette ciò che si vede ritardando il momento della conclusione. Mantenendo la cosa in vista, la si guarda. Il giudizio è sospeso all’ipotesi .
Come ha scritto il critico e saggista francese Roland Barthes, il principio catalizzante di ogni avventura è l’animazione. Una foto, un’immagine, un elemento materico, non è animato di per sé, ma anima chi lo guarda e questi lo anima a sua volta. In questo gioco di riflessi l’evento e l’incontro danno vita a ciò che appariva precedentemente inanimato.
Presenze sotterranee da sempre presenti, ma che riaffiorano nel momento in cui si sospende il proprio giudizio e ci si libera dal monopolio della logica sulla nostra percezione.
Metafora ambientale di un inoltrarsi nei recessi del proprio essere, in luoghi profondi, oscuri, freschi e umidi, pieni di vita. Discendere sì, ma con occhi e sensi spalancati, come chi si abitua alla notte.”
“Il mio paese non ha case”, a cura di Ado Brandimarte, con opere di Gianfranco Basso, Donato Marrocco, Elena e Alicya Ricciuto e Svea Taubert. Fare Epochè della memoria, sospendere il diritto ereditario a reclamare proprietà territoriale, sospendere la percezione abituale per risvegliare un paese negli occhi nuovi dello sguardo del nuovo a venire.
Nomadi Insetti Dèi, mostra nel mercato romano delGruppo Virus( Giulio Ceraldi, Consuelo Chierici, Giancarlo Savino)a cura di Jonathan Giustini. Il Mercato Romano è l’arca di Örụ, Arca dei rimossi architettonici, inconscio della città senza nome, sogno diurno della città presente, città latente.
In questo spazio del frammento, Epochè è apertura e risveglio a ciò che non è ancora pensato, spazio di commercio come transito di meraviglie e oggetti inaspettati, provenienti da luoghi lontani o inesistenti. Mercato romano come segno dell’ininterrotto rapporto coloniale della città di Ferentino. Come ogni simbiosi o parassitaggio dell’Altro, è sempre possibile che sia l’Altro, infine, a infettarci e decostrurci.
Tra le casse, i cordami e gli avori, e i saperi rubati a biblioteche di sabbia saccheggiate di conoscenze invendibili, si stipano questi frammenti di non-umanità, gli Anunnaki di Chierici, ritrovati tra le spezie e le argille di artigiani senza nome, oggetti-portali per tecnologie impiantate da Altrovi illocalizzabili, teste sfuggite all’osso per divenire lune, come la figure cefaliche di Savino, teste-mondi, teste-monadi, forse semi di mondi innestati in cervelli prescelti, prometei discesi dalle pance di anunnaki bambini.
Forse saperi che disinventano i corpi, incidono nelle linee anatomiche nuove conformazioni, e nei metalli di Ceraldi ospitano tra le pieghe inorganiche fughe per divenire-insetti, dagli innesti metallici si staccano ecologie oscure per pianeti-insetti, ri-inscatolati per vendere metamorfosi in fome disciplinate. Se l’epochè è atto generativo di resistenza all’automazione( Moleculcracy) il dialogo di Alessandro Mazzi e Giuseppe Cellitti sviluppa un dis-incantamento, una critica e uno smascheramento del divino tecno-capitalista, proprio delineandone le somiglianze performative e rituali che ne fanno un surrogato del dio monoteista, onnisciente, onnipotente, trascendente. L’ AI può essere letta come l’ultima incarnazione di una teologia politica che trasforma l’autorità divina in autorità tecnica.
L’AI è la prosecuzione dei monoteismi con altri mezzi, algoritmici.
Fare epochè in mercato editoriale significherebbe ‘sospendere’ l’attuale, abituale modo di concepire la letteratura come proiezione dell’io biografico dell’autore, per aprirsi invece ad altre vie di narrazione. Epochè è dis-automatizzazione, interferenza, super-posizione, imprevedibilità statistica.
“Negli ultimi 25 anni, un nuovo paradigma sociologico si è imposto nel rapporto tra la cultura e il mercato editoriale e tra la Letteratura e l’azione generatrice della fantasia: al centro della narrazione si è consolidata, difatti, l’esperienza diretta dell’autore per il tramite di storie vere o quasi-vere.
A partire da una riflessione sull’auto-fiction e su recenti dati di ordine statistico, il dialogo tra Filippo Balestrazzi, Greta Bertella, Giulio Mozzi e Antonio Parisi ha tentato di gettare uno sguardo diacritico e diacronico sullo stato dell’editoria e sulla trasmissione letteraria contemporanea. È stata quindi posta l’attenzione sui diversi attori in ruolo, su una serie di testi emblematici (come “L’ Avversario” di Carrére, capostipite di un genere) e su recenti opere-mondo capaci di scardinare le tendenze (come “Lo splendore” di Pier Paolo Di Mino o “Digressione” di Gian Marco Griffi), aprendo un’indagine che ha saputo svilupparsi da evidenti riferimenti classici agli esiti del post-modernismo, dalle ultime destinazioni della Letteratura italiana ai tratti caratterizzanti della narrativa straniera. Un’indagine, s’intende, ancora in movimento.”





